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International Encyclopaedia
of the Histories of Anthropology

Dalla Sardegna al Mondo. Le antropologie di Giulio Angioni

Francesco Bachis

Università di Cagliari

Benedetto Caltagirone

Università di Cagliari

Tatiana Cossu

Università di Cagliari

Maria Gabriella Da Re

Università di Cagliari

Carlo Maxia

Università di Cagliari

Antonio Maria Pusceddu

ISCTE-CRIA, Lisboa

Felice Tiragallo

Università di Cagliari

2021
To cite this article

Da Re, Maria Gabriella & al., 2021. “Dalla Sardegna al Mondo. Le antropologie di Giulio Angioni ”, in BEROSE International Encyclopaedia of the Histories of Anthropology, Paris.

URL BEROSE: article2323.html

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Published as part of the research theme «History of Italian Anthropology», directed by Giordana Charuty (EPHE, IIAC).

Introduzione

Il lavoro di Giulio Angioni (Guasila 1939-Settimo San Pietro 2017) ha certamente lasciato il segno nella storia degli studi antropologici in Italia e non solo, e la sua pluriennale attività di docente all’Università di Cagliari (e per brevi periodi anche in Francia e in Inghilterra) ha parimenti segnato generazioni di studenti e intellettuali che in quell’Ateneo si sono formati. A sua volta, in questa stessa università egli è stato allievo di Ernesto De Martino (1908-1965) e Alberto Mario Cirese (1921-2011), due maestri di cui è ben nota l’opera di rifondazione degli studi sul mondo popolare in Italia.

I rapporti col mondo accademico risalgono al 1967 con l’assegnazione di una borsa di studi post laurea. Professore Ordinario di Antropologia Culturale dal 1980, Angioni ha diretto l’Istituto di Discipline Socio-Antropologiche della Facoltà di Magistero e il Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane della Facoltà di Lettere e Filosofia.

Nelle ricerche sul mondo agropastorale della Sardegna, Angioni, nato in una famiglia contadina del Sud dell’Isola, ha messo a frutto la sua conoscenza ’dall’interno’ di quel mondo e le sue opere hanno segnato un punto di svolta negli studi sul mondo contadino e pastorale e più in generale nella comprensione della società e della cultura isolana.

Le sue riflessioni di ampio respiro teorico sulla cultura materiale, sull’identità e la lingua hanno superato le contingenze locali che le avevano originate per assumere un’impronta più ’universale’ secondo i canoni classici dell’antropologia. Una ricerca, inoltre, mai disgiunta da un impegno politico e sociale costante e duraturo nel tempo. In questo orizzonte si collocano anche la direzione della Société des Européanistes e dal 1995 la fondazione e direzione della rivista Europaea, che aveva la sua sede presso l’Ateneo di Cagliari.

Non meno importante nella sua vicenda esistenziale e culturale è la produzione letteraria, per lo più di ambientazione sarda (Manai 2006). Produzione incominciata, quasi in sordina, con la pubblicazione di due volumi di racconti, proseguita poi con una lunga serie di romanzi e, nell’ultimo periodo della sua vita, con due raccolte di poesie (Angioni 2008b).

In dialogo con Gramsci: gli inizi del lavoro teorico

Nell’immediato dopoguerra il panorama culturale italiano fu investito dalla pubblicazione delle Lettere dal carcere (1947) e poi dei Quaderni del carcere (1948-1951), note e appunti di analisi e riflessione critica scritti da Antonio Gramsci negli anni Venti-Trenta. I Quaderni scossero e rinnovarono il panorama culturale italiano, gravato dall’oscurantismo e dal provincialismo del ventennio fascista. Anche nell’ambito degli studi demologici e antropologici il pensiero gramsciano contribuì ad operare una vera e propria rifondazione, specie ad opera di Ernesto De martino e Alberto M. Cirese. Il saggio demartiniano «Intorno a una storia del mondo popolare subalterno», uscito nel 1949 nella rivista Società, e il saggio ciresiano «Concezioni del mondo, filosofia spontanea e istinto di classe nelle ’Osservazioni sul folclore’ di Antonio Gramsci», presentato al Convegno internazionale di studi gramsciani del 1967 (Cirese 1976), costituiscono due momenti importanti del percorso di rinnovamento messo in moto dall’opera di Gramsci.

In Italia si sviluppò, quindi, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, un fecondo filone di studi antropologici, d’ispirazione gramsciana, sui dislivelli culturali e sulle concezioni del mondo delle classi subalterne, che fu in buona parte studio etnografico sul Meridione e le Isole d’Italia, non di rado accompagnato da un impegno civile e politico degli stessi studiosi (Angioni 2011:46, 206-220; Alliegro 2011: 315-524). Questo filone di ricerche fu lontano da forme di mitizzazione della cultura rurale e, anche quando l’attenzione era concentrata sugli aspetti più ‘arcaici’, fu privo di pericolose nostalgie romantiche, pronto a cogliere invece le varie forme di resistenza al potere e alle istituzioni espresse dai subalterni. Filone attento anche allo studio della grande trasformazione in atto, a quel processo di deruralizzazione capitalistico, di proletarizzazione dei ceti contadini, che cambiò i modi di vivere in modo repentino e radicale nelle campagne come nelle città. Si pensi alle ricerche e gli studi, oltre che di De Martino e Cirese, di Pietro Clemente, Pier Giorgio Solinas, Clara Gallini (1931-2017), Vittorio Lanternari (1918-2010), Tullio Seppilli (1928-2017), Carlo Tullio Altan (1916-2005), Diego Carpitella (1924-1990) e di altri antropologi non meno rilevanti.

In questo filone di studi s’inserisce Angioni, che da studente universitario si avvicinò al pensiero gramsciano attraverso i corsi dei suoi maestri De Martino e Cirese e di altri intellettuali, come Giuseppe Petronio, tutti docenti nell’Ateneo cagliaritano all’inizio degli anni Sessanta. Alla luce del loro insegnamento, Angioni scopre che la cultura popolare e i modi di vivere del mondo contadino dal quale proveniva erano temi di accurate analisi in nuovi corsi universitari, e che il folklore era da concepirsi come «una cosa che è molto seria e da prendere sul serio», secondo gli insegnamenti gramsciani; (Gramsci 1975: 2314; Angioni 1974: 29;), in quanto «’concezione del mondo e della vita’, implicita in grande misura» (Gramsci 1975: 2311), dell’«insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita» (Gramsci 1975: 2012; Angioni 1974: 33-34). Fu come una sorta di uscita dalle tenebre, che – come soleva affermare Angioni – gli consentì finalmente di dare senso al suo vissuto (Angioni 2008a: 333-335). L’esperienza della diversità e quella intensa, formativa, degli studi, gli consentì di acquisire piena consapevolezza della storicità dei rapporti di subalternità e di dominio fra le classi, maturando un interesse «ben presto anche specialistico» sui modi di vivere nei contesti rurali e subalterni, fondato su «la lettura dei classici del meridionalismo d’ispirazione socialista, quali Salvemini e Gramsci, (...) e (...) l’accostamento alle correnti marxiste, soprattutto francesi, degli studi antropologici» (Angioni 1974: 7-8).

Primo esito significativo degli studi e delle ricerche di Angioni sono tre monografie, pensate e scritte in un medesimo arco di tempo, fra il 1968 e il 1973, sebbene edite in anni differenti: Tre saggi sull’antropologia dell’età coloniale (1973), Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna (1974) e Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna (1976).

Le tre monografie condividono una duplice istanza di fondo: la necessità di una riflessione critica sui problemi dell’esistenza dei ’dislivelli socio-economici e culturali interni ed esterni alle società occidentali’ - nozione mutuata da Cirese (1973), che legge e interpreta Gramsci - e l’urgenza di adeguamento o rovesciamento degli indirizzi teorico-metodologici delle discipline antropologiche.

Egli riconosceva agli studi antropologici «una qualche funzione positiva», per esempio nel prendere coscienza della pretestuosità delle ideologie eurocentriche e nel criticare «la convinzione comune dell’assoluta eccellenza e differenza qualitativa della civiltà occidentale». Tuttavia considerava irrisolto il rapporto teorico e pratico fra l’antropologia - in quanto sapere che nasce e si esplica nel mondo occidentale da parte di studiosi appartenenti a classi sociali dominanti o in rapporti più o meno organici con esse - e i propri oggetti di studio, «i quali sono sempre stati popoli o strati sociali oggetto di svariate forme di sfruttamento e di dominazione, di subordinazione e di discriminazione, all’esterno o all’interno delle nostre società classiste» (Angioni 1973: 22; corsivo dell’Autore).

Angioni mette in discussione anche la nozione di cultura, lo strumento concettuale che l’Occidente si è dato per guardare ai propri e agli altrui modi di vivere. La via percorsa dall’antropologo sardo mirerà a far convergere due concetti totalizzanti, quello di cultura come ‘modo di vita’, d’ispirazione tyloriana, e quello di cultura come ‘modo di produzione’, propria di alcuni filoni del pensiero marxista, mantenendone tutta la complessità e la dinamicità interna. Egli manterrà un profondo e convinto legame con il pensiero di Gramsci anche dopo gli anni Settanta, quando in Italia non era più ‘alla moda’ occuparsi del grande pensatore sardo e della ‘filosofia della praxis’, né dei conflitti di classe. Con essi sono state rimosse ed emarginate dal dibattito culturale anche le tematiche del lavoro con le soggettività coinvolte, come se le classi strumentali si fossero smaterializzate e non esistessero più né socialmente, né economicamente.

Identità contadina

I volumi Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna (1974) e Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna (1976), rappresentano insieme una tappa fondamentale del percorso scientifico di Angioni. Oggetto del primo libro sono i rapporti di produzione e le concezioni del mondo dei contadini di una regione della Sardegna meridionale, studiati in una prospettiva storico-antropologica, attraverso gli strumenti di analisi del materialismo storico, in cui dialogano approcci marxisti di orientamento strutturalista e lo storicismo marxista di ascendenza gramsciana. Nel secondo l’Autore descrive le opere e i giorni del lavoro dei contadini, le loro profonde conoscenze del territorio, degli animali, delle piante coltivate e dei cicli colturali. Pur tenendo presente la lezione del grande linguista tedesco M. L. Wagner (1921) e dell’indirizzo di Wörter und Sachen (Parole e Cose), oltre che di Maurice Le Lannou (1941), egli può contare su una profonda conoscenza dall’interno del mondo che rappresenta e delle modalità linguistiche e ideologiche locali.

Sulle canoniche pratiche di documentazione empirica, debitrici delle forme rigorose d’inchiesta demologica, che erano andate formalizzandosi a Cagliari intorno alla figura di Cirese, s’innesta un’attitudine autobiografica, generalmente indicata come ’antropologia a casa’ (anthropology at home), almeno nelle tradizioni maggiormente orientate allo studio dei contesti extraeuropei. Questa dimensione viene esplicitamente richiamata dall’autore in una breve nota di apertura al volume del 1974:

Le ricerche dirette e le riflessioni, di cui questo libro è il frutto, hanno anche un’origine di carattere autobiografico, che ritengo doveroso dichiarare, perché elemento rilevante del modo di dispormi di fronte ai fenomeni osservati e del modo di analizzarli e di riproporli. (Angioni 1974:7).

Rapporti di produzione e cultura subalterna si presenta come il parziale bilancio di un percorso pluriennale di ricerca e di interesse per la vita delle campagne cominciato agli inizi degli anni Sessanta. Tale percorso continua con la pubblicazione dei volumi Sa laurera. Il lavoro contadino in Sardegna (1976), Il sapere della mano. Saggi di antropologia del lavoro (1986), primo contributo in Italia di riflessione strutturata intorno all’antropologia del lavoro e infine I pascoli erranti. Antropologia del pastore in Sardegna (1989). Sono testi che porranno le basi per l’istituzione, fortemente voluta da Angioni, del primo insegnamento in Italia di Storia della Cultura Materiale nel 1986.

Un demologo di origine contadina si propone di indagare il suo stesso mondo di provenienza, consapevole di dover calcolare quanto il dogmaticamente ortodosso ’sguardo da lontano’ possa essere gettato da vicino perché la ricerca mantenga una qualche scientifica credibilità.

Nascere contadini, tuttavia, non implica essere o sentirsi contadini: origini e identità non sempre e necessariamente coincidono. Pur riconoscendo la rilevanza della componente autobiografica ai fini della sua etnografia, della riflessione su di essa e della scrittura del libro, Angioni non sembra interessato ad affrontare la contraddizione dell’essere allo stesso tempo investigatore e un po’ anche oggetto dell’indagine.

È evidente che qui non è il dato biografico in sé (né le sue ripercussioni psicologiche o affettive o di altro tipo ancora) che interessa, bensì le conseguenze che esso ha sulle modalità e sui risultati della ricerca. Un aspetto che può valere sempre, per ogni antropologo nel ‘normale’ esercizio delle sue funzioni. Angioni mantiene la giusta distanza dalla sua materia, ma, via via che avanza nella trattazione, è come se questa stessa materia lo attraesse al proprio interno facendo trapelare una relazione di appartenenza a quel mondo e dunque una condivisione di conoscenze e di competenze con gli indigeni e perciò stesso attenuando, se non annullando, ogni cautela di presa di distanza.

Rapporti di produzione e cultura subalterna è una ricerca sull’identità contadina della Trexenta, ricerca circoscritta a questa «piccola zona della Sardegna meridionale» (Angioni 1974: 23), anche se il termine ’identità’ compare una sola volta in tutto il libro. Un buon modo per incominciare a parlare di identità collettive consiste nell’affrontare e fare piazza pulita di tutti gli stereotipi e pregiudizi riguardanti un gruppo o una comunità, o comunque si voglia chiamare il complesso di individui che diciamo portatori di una certa identità. È un compito al quale Angioni si accinge con iconoclastico rigore passando in rassegna i più diffusi luoghi comuni vecchi e nuovi riguardanti i sardi. Appare chiaro il rigetto di una concezione sostanzialista o essenzialista dell’identità secondo cui i sardi sarebbero portatori di ’sardità’, una presunta essenza immutabile nel tempo e impermeabile alle influenze esterne considerate in genere come corruttrici di una purezza e autenticità originarie. Seppure implicita, ma altrettanto netta, è l’assunzione di una concezione dell’identità come un prodotto della storia, frutto di processi acculturativi, relazionali, che pure non inficiano il riconoscimento di peculiarità e alterità, a patto però che le si relativizzi e le si analizzi «con rigore storiografico e con precisione documentaria» (Angioni 1974: 16), cosa che Angioni si propone di fare per la Trexenta, muovendo dalla «realtà effettuale» che si costituisce «innanzitutto a livello strutturale (cioè nel processo di sviluppo delle forze e dei rapporti produttivi)» (Ibid.). A questo livello si potranno allora persino riconoscere forme di produzione, soprattutto agropastorali, «obbiettivamente anche peculiari e arcaiche» (Ibid.), ma con la tassativa avvertenza che si tratta pur sempre di forme «non assolutamente specifiche e primitive od originariamente indigene» (Ibid.).

Il riferimento allo ’sviluppo delle forze produttive’, ai ’rapporti produttivi’ e alle ’forme di produzione’ ci rimanda al nucleo teorico di Rapporti di produzione e cultura subalterna: la concezione materialistica della storia, che in questo periodo risente dell’influenza del pensiero di Louis Althusser:

L’ipotesi che tenterò qui di illustrare consiste, in sintesi, nel ritenere che è proprio entro un quadro interpretativo storico-materialistico che il tradizionale (e socialmente connotabile) oggetto degli studi demologici acquista un criterio unificante non solo più preciso, ma nello stesso tempo assai più comprensivo ed evidenziante i problemi più importanti che si pongono agli studiosi del «mondo popolare subalterno», per dirla con Ernesto De Martino (Angioni 1974: 31).

Entro questo quadro Angioni apre una nuova prospettiva di analisi del mondo contadino in Sardegna quale non era mai stata applicata prima con tanta scientifica coerenza e con così sistematica metodicità; una via storico-materialista alla nozione di identità contadina.

I principali pilastri su cui si regge l’impianto teorico e documentario del libro sono: il concetto di modo di produzione, equiparato al concetto di cultura (Id.: 38), e la nozione di ’formazione sociale’ tra loro variamente correlati secondo una ben precisa logica combinatoria (regolata dalle leggi della ’dialettica’) per cui struttura e sovrastruttura reciprocamente si determinano, fermo restando «l’aspetto in ultima istanza determinante» della struttura (Ibid.). Ne scaturisce una rappresentazione dell’identità contadina della Trexenta come una peculiare formazione sociale caratterizzata, per i primi cinquant’anni del Novecento, da un peculiare rapporto con la terra, oggetto del lavoro (pratica della cerealicoltura secca); un peculiare grado di sviluppo delle forze produttive (prevalente utilizzazione di attrezzi non meccanici mossi dalla forza umana e animale); forme peculiari di rapporti socio-economici (per lo più sanciti da norme consuetudinarie) che intercorrono tra produttori e tra questi e i proprietari; peculiari forme di contraddizione con il modo di produzione capitalistico dominante all’interno della più vasta formazione sociale nazionale di cui la comunità contadina è piccolissima parte; peculiari ideologie e rappresentazioni del mondo in parziale o totale contraddizione con le ideologie egemoniche locali e non. Tutti questi elementi (e altri ancora) compongono un quadro d’insieme di un’identità collettiva tutt’altro che omogenea e compatta, ma, al contrario, caratterizzata da una forte stratificazione interna tra un ceto di proprietari – a loro volta divisi in ’grandi’ e ’piccoli’ – e un ceto di ’servitori’-dipendenti e braccianti, anch’essi stratificati al proprio interno. Una differenziazione che riguarda anche altri aspetti come gli scambi di prestazioni, l’alimentazione, l’abitazione, il vestiario: tutti tratti che entrano a far parte dello stock identitario dei contadini della zona e di cui l’Autore ci fornisce una dettagliata documentazione, rendendoci l’immagine di una comunità che si fonda sulla e si perpetua grazie alla diseguaglianza tra le classi, e sfatando così il mito di una indifferenziata ed egualitaria comunità contadina così caro ai più che interessati «strati superiori locali» (Id.: 139) e ai loro ideologi più o meno organici.

L’incorporazione dei saperi tecnici: in dialogo con André Leroi-Gourhan

Nella scrittura antropologica di Angioni il tema dei saperi tecnici ha una posizione centrale. Si tratta di un’area di riflessione - distante dai temi prevalenti negli studi classici sul folklore - che è stata costantemente approfondita e rinnovata dall’Autore, divenendo poi il riferimento costante di una scrittura assai articolata, sia in campo specialistico sia in campo narrativo. Il saggio che contiene la più compiuta sintesi teorica sul tema è Tecnica e sapere tecnico nel mondo preindustriale che comparirà in diverse versioni dal 1984 al 2005 (Angioni 1984, 1986, 2005).

Angioni tiene a fondare e a dipanare in tutto il resto della sua riflessione un discorso sul contadino sardo come specialista. Si tratta quasi di un registro continuo e ricorrente sulla ricchezza e la complessità del mondo cognitivo delle campagne e di conseguenza sulla peculiarità dei processi di conoscenza insiti nella produzione e sulla loro articolazione fisica e simbolica. Scrive, infatti, Angioni:

Potremmo qualificare il contadino sardo tradizionale (ma la definizione vale in genere per il contadino mediterraneo) come un artigiano della terra: sia perché la terra è oggetto e strumento del suo lavoro mediato da un armamentario relativamente assai vasto e complicato; sia perché il suo atteggiamento verso la terra e verso il suo prodotto ha qualcosa di simile al rapporto dell’artigiano col prodotto del suo lavoro, frutto di una trasformazione creativa della materia grezza (Angioni 1986: 131).

Angioni àncora, per la prima volta, il caso sardo ai principi e alla logica di una discussione radicale sulla tecnologia come fatto culturale. Le nozioni di ambiente tecnico, di processo produttivo, di catena operativa e d’innovazione, elaborate soprattutto dalla scuola francese di Techniques et cultures (Leroi-Gourhan 1943-45; 1964-1965) e utilizzate come griglie di analisi del ciclo produttivo agricolo tradizionale mettono in discussione la stereotipata immagine pauperistica dei suoi protagonisti.

Nel panorama di studi italiani la cultura materiale e i saperi incorporati, filtrati dalla riflessione di André Leroi-Gourhan, entrano in scena fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Due le occasioni fondative: il secondo Congresso di Studi Antropologici Siciliani, dedicato a I mestieri: organizzazione, tecniche, linguaggi (Palermo, marzo 1980) e il seminario interdisciplinare Per un laboratorio di tecnologia e cultura materiale (Siena 3-4 giugno 1980) . In questa seconda occasione Giulio Angioni propose una riflessione sulla nozione di ragionamento tecnico. Se esso può essere pensato come un processo che si manifesta soltanto e nei limiti dell’azione tecnica e che si annulla nei risultati dell’operare umano, allora l’etnografia deve trovare per esso un luogo specifico di descrizione, ove «rendere conto delle abilità incorporate, delle capacità acquisite nel fare, depositate nella memoria corporea, in quella specie di memoria operativa che fa sì che il corpo possa operare senza il controllo teso e continuo della mente (…)» (Angioni 1989b: 45).

I saperi tecnici si presentano sotto una duplice prospettiva. Da un lato sono aspetti di una fenomenologia dei saperi e della cognizione che rimangono ‘dentro’ qualsiasi esperienza di attività tecnica. Sono elementi di un ambiente tecnico e vivono nelle azioni e nei dispositivi corporei ed extra-corporei che permettono di realizzare la produzione tecnica, specie quella preindustriale. Dall’altro lato l’implicitezza di questi saperi sono la condizione nella quale avviene la comunicazione fra il ricercatore e ogni suo testimone. La mancanza di discorsi guida un certo tipo di contatto e di dialogo. In particolare il rapporto con la memoria e con il passato, specie il passato tecnico, si riattualizza più con l’azione che con le parole:

Nel caso di chi non sta solo ricordando, di chi non sta solo recuperando una sua dimensione del tempo trascorso, ma può riprodurre gesti e procedimenti tecnici servendosi degli strumenti e delle materie prime adeguate, il problema si risolve nella maniera più ovvia. Esplicitando nel fare quel sapere tecnico, quelle capacità operative implicite e incorporate, che solo o quasi solo così, nel fare pratico, hanno avuto modo di diventare esplicite (Angioni 1989b: 44).

Ciò, prosegue Angioni, pone al ricercatore «grossi problemi», perché egli non è messo nelle condizioni di agire sulla memoria del suo interlocutore, può solo assistere all’emergere incarnato di un «ragionamento tecnico». C’è un processo di invenzioni e di acquisizioni (Ibid.) che il corpo ritiene e metabolizza creando una memoria operativa accessibile ormai, (negli anni Ottanta siamo agli albori della tecnologia elettronico-digitale), principalmente attraverso la funzione documentaria «della cinematografia e di analoghi mezzi di registrazione di procedimenti operativi» (Id.:45).

Tuttavia il problema fondamentale di Angioni è fissare quelle coordinate dell’incontro etnografico che favoriscano e definiscano realmente l’emergere e il riemergere di questa memoria tecnica incorporata. Il problema è che vogliamo ottenere dai nostri informatori dei ‘discorsi’. Due secoli almeno di abitudine a pensare a costruire discorsi sulla tecnica come conseguenza e applicazione di scoperte e conoscenze scientifiche ci hanno reso poco sensibili ai modi di apprendimento, di ragionamento e di memorizzazione di tipo pretecnologico, e cadiamo nell’errore di trascurare la peculiarità di questi ambienti tecnici: «il sapere e il saper fare implicito nell’operare concreto» (Id.: 47).

Angioni sceglie quindi di lavorare in un’area in ombra rispetto alle grandi visioni sulle culture e sulle loro differenze pertinenti il simbolico e il linguistico. I suoi grandi riferimenti sono il marxismo e la riflessione sul lavoro umano e sulle sue implicazioni con la natura e l’ordinamento sociale e le prospettive analitiche utilizzate da André Leroi-Gourhan nella ricostruzione del processo di ominazione e del progressivo dispiegarsi dell’organismo umano nell’interazione con l’ambiente. È presente in modo rilevante, inoltre, il contributo di Marcel Mauss e del suo Techniques du corps (1936; 1968) che aveva rivelato nella disciplina un tipo di ’memoria del corpo’, quella dei gesti e delle posture ripetute e ‘naturalizzate’, che per la prima volta avevano fatto emergere la dimensione del non detto, dell’implicito nei fatti culturali.

Un’eco dell’assoluta centralità di queste tematiche nel pensiero di Angioni si riflette e si esemplifica efficacemente nella sua produzione letteraria, come nel romanzo Una ignota compagnia (1992). Ambientato nella Milano contemporanea esso narra dell’amicizia di due giovani immigrati, uno sardo e l’altro africano. Al centro del racconto è l’esperienza del lavoro in una piccola fabbrica di abbigliamento femminile. La produzione è di tipo seriale e semiartigianale ed essi svolgono il delicato compito di tagliare, secondo dei modelli prefissati, delle pezze di tessuto. La letterarietà del testo non impedisce (ma al contrario sembra favorirla) un’efficace descrizione del rapporto tra operaio e strumento di lavoro e della memorizzazione di gesti tecnici e posture da parte del corpo del lavoratore:

La taglierina elettrica è l’attrezzo principale del lavoro. Non la temevo solamente: le portavo rispetto, l’ammiravo spesso, così bella e potente, me la sentivo amica, certe volte, e la mattina, per saluto, stringevo con la mano la sua lama fredda per goderne un piacevole ribrezzo. (...) la taglierina elettrica richiede perfezione. Farci la mano è poco, bisogna farla diventare parte del tuo corpo, non aggiunta smontabile alla mano: così diventa naturale, e solo quando il corpo fa da solo, senza più sforzi di attenzione, come un mulo che sa la strada, solo allora ti fidi nel lavoro (Angioni 1992: 97-98).

In questo passo Giulio Angioni ’trasferisce’ un pezzo importante della sua riflessione antropologica nella narrativa. La struttura e la logica del romanzo gli consentono di collegare la ’forma di vita’ dei lavoratori della fabbrica a un loro mondo più vasto che li contiene e li spiega: quella Milano, quelle luci, quegli odori, il suono di quella lingua e di quei rumori. Si tratta di un’esperienza o della sua immagine che, in effetti, un saggio etnografico farebbe fatica a contenere.

Fig. 1
Giulio Angioni.
M. G. Da Re

Fare, dire, sentire

Le principali linee di ricerca e di studio perseguite da Angioni dagli anni Settanta in poi sono collocate nell’opera del 2011, Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture, entro un quadro teorico che, senza avere pretese di esaustività e di particolare sistematicità, consente di mostrare la complessità e varietà delle tematiche trattate e i loro punti in comune. A rappresentare l’orizzonte di riferimento, universale e onnipervasivo, di questo volume sono tre dimensioni fondative degli esseri umani, come specie, come gruppo sociale e come individuo, tre aspetti del vivere connessi all’agire e al sapere pratico, alla comunicazione e al linguaggio verbale, al dare senso alla vita e al mondo, e cioè il fare, il dire e il sentire.

È costante preoccupazione intellettuale dell’Autore sottolineare che i temi del fare, del dire e del sentire non debbono essere considerati quali ambiti separati e in gerarchie d’importanza del vivere umano; considerazione, questa, nient’affatto scontata, anche in ambito scientifico, dove correnti di pensiero, divenute talora parte dei nostri sensi comuni, hanno la tendenza a distinguere, e non di rado a gerarchizzare, questi tre ambiti del vivere. In genere, in posizione dominante – come più volte ricorda Angioni – «sono il dire o il sentire a scapito del fare, fino a ignorarlo o a ridurlo a una naturalità non umana» (2011: 41), gerarchizzazione figlia della distinzione e svalutazione sociale dei lavori manuali rispetto a quelli intellettuali, figlia quindi di gerarchie sociali millenarie.

C’è un distinto filo rosso che unisce le tre sezioni di Fare, dire, sentire ed è il tema gramsciano della subalternità, e in particolare della subalternità delle classi strumentali di ogni società. Da qui la ripresa da parte dell’Autore del tema del fare e di chi fa, del lavoro in tutti i suoi aspetti, del gesto tecnico e dei saperi della mano. Il tema della subalternità è un’utile chiave di lettura anche della sezione dedicata al dire, nella seconda parte del libro, dove si esamina il dire e il fare di chi ha il potere e quindi i concetti gramsciani di «egemonia» e di «dominio».

Con Gramsci si può considerare come per millenni i ceti dirigenti delle compagini sociali stratificate e verticali abbiano variamente governato servendosi del dire mediante le competenze e i servizi di loro intellettuali organici (…). La massa ha sempre dovuto ascoltare, eseguire, ha dovuto spesso credere obbedire combattere, ma soprattutto sempre obbedire e lavorare, fare (2011: 146).

Infine la subalternità, i processi di gerarchizzazione sociale sono chiave di lettura anche della sezione del sentire, dove si affronta l’analisi di una delle più grandi ovvietà che tutti noi abbiamo incorporato: l’idea tutta occidentale che prodotti, attività e capacità artistiche non siano proprie di tutti gli uomini, costitutive della nostra specie, ma solo di qualcuno e che non riguarderebbero tutto il fare, il dire e il sentire umano ma solo certi ambiti e certe attività. Dietro la moderna distinzione tra arte e non arte si cela quindi una catena di opposizioni gerarchiche come quella fra il piacere utile e quotidiano che nasce dal bisogno, e il piacere rivolto a cose non funzionali e per questo colto, puro, disinteressato, creativo, geniale, originale e spontaneo. Eppure appena in epoca premoderna – nota ancora Angioni – quasi nulla era considerato bello che non fosse anche utile, a cominciare dal lavoro e dai suoi prodotti.

Per cui è bello anche un campo ben arato, un carro caricato bene, un buon robusto contenitore come un cesto o un vaso senza orpelli, una risposta ben data per le rime a un seccatore e così via (2011: 332).

Nel lungo percorso che riconnette le prime opere di Angioni alle più recenti, non è mai venuta meno la convinzione che gli aspetti materiali e quelli simbolici delle culture umane stiano in uno strettissimo e reciproco rapporto. Tuttavia è inevitabile porre anche il problema di eventuali ripensamenti nel suo pensiero teorico dal 1974 al 2011. In Fare, dire, sentire, ritornando sul concetto di cultura, egli critica le correnti idealistiche prevalenti nella storia degli studi antropologici, ma formula anche un giudizio negativo su quella «parte oggi minore di nozioni correnti e specialistiche di cultura [che] possono etichettarsi come materialistiche (...) quando separano, privilegiano e mettono in posizione dominante il fare a scapito del dire e del sentire, sminuendo l’importanza di idee e sentimenti in quanto evanescenti rispetto all’agire» (2011: 41).

L’Autore, comunque, non rinnega mai la fortunata stagione degli studi di stampo marxista sul lavoro e sui rapporti sociali di produzione - considerati spesso come il ‘fare’ per eccellenza - che lo ha avuto come protagonista entro il quadro degli studi italiani.

Le emozioni nella letteratura e nell’etnografia

Angioni fin dagli anni Settanta ha intravisto nella scrittura letteraria vera e propria un terreno efficace in cui mettere in gioco anche le proprie riflessioni e i saperi di antropologo.

La ricerca etnografica dell’Autore si inscrive in una stagione scientifica in cui l’antropologo si rapportava con l’oggetto di ricerca attraverso metodi e atteggiamenti ancora piuttosto rigidi e controllati, e gli scritti erano spesso impregnati di scientismo, se non di vero e proprio oggettivismo. Un misurato autocontrollo caratterizzava inoltre la ’postura’ del ricercatore nel suo rapporto ideale con il lettore. I primi ripensamenti dei modi di intendere e di praticare la relazione con gli ’informatori’, ma anche la ’restituzione’ dell’esperienza etnografica, sono comparsi verso la fine degli anni Settanta, ma si è trattato di pochi casi isolati (Gallini 1981) e c’è voluto del tempo prima che si riconoscesse loro una qualche rilevanza euristica.

Dagli anni Novanta la scrittura letteraria diviene il principale mezzo espressivo e riflessivo di Angioni. Nel 2011, riflettendo sul proprio percorso antropologico (e implicitamente anche su quello letterario), egli approda, come si è visto, a una sintesi interpretativa dell’esperienza umana, che indica con la formula olistica fare-dire-sentire. Quello della letteratura si è rivelato un campo fertile in cui riversare anche alcuni principi scientifici ormai irrinunciabili: «la relatività, l’indeterminazione, l’incompletezza, la probabilità, le sfumature, la complessità» (Angioni 2011: 15). L’orizzonte delle storie permette, infatti, di far emergere in traiettorie riconoscibili le provvisorietà, le contraddizioni, le incertezze, i ripensamenti di individui che si rapportano ai grandi cambiamenti che si insinuano nella quotidianità.

Angioni intraprende la via della scrittura letteraria esordendo con la raccolta di racconti intitolata A fuoco dentro/ A fogu aintru (1978) in cui si fanno frequenti i riferimenti al mutamento culturale, ovvero all’incontro tra il ’vecchio’ e il ’nuovo’, un tema che diverrà centrale, molti anni più tardi, nel romanzo Assandira (2004), così come nella composizione poetica in sardo e in italiano, Tempus (2008). In Assandira, in particolare si avverte la notevole capacità di descrivere densamente i conflitti generazionali tenendo strettamente insieme il fare, il dire e il sentire, vale a dire l’obiettivo della sua antropologia più matura.

La trama del romanzo s’incentra su un’avventura imprenditoriale messa in atto da una giovane coppia, lei danese, lui sardo (figlio del protagonista) che riesce a convincere l’anziano padre pastore oramai in pensione, Costantino Saru, a concedere la propria terra per la realizzazione dell’agriturismo Assandira. La struttura intercetterà efficacemente la brama di esotismo, di primitività e di genuinità dei turisti nord-europei. L’attrazione principale sarà proprio l’anziano pastore, reso simbolo di un’identità arcaica, che dopo mille dubbi cercherà di adattarsi alla situazione, rispolverando i propri vecchi abiti e mimando, non senza vuota enfasi, i gesti del passato legati alle fatiche e ai sacrifici che solo di recente aveva finalmente messo da parte, mescolandoli addirittura con altri usi ancora più antichi che non ha neppure mai conosciuto. Dopo il grande successo, l’agriturismo subirà la devastazione di un incendio in cui Mario, il figlio di Costantino, perderà la vita. Le indagini sull’incendio, di natura dolosa, metteranno in evidenza ulteriori e insospettabili vicende.

La richiesta che Mario e la sua compagna Grete fanno all’anziano pastore è di guardare al ’vecchio’ con gli occhi del ’nuovo’, ma a Costantino, chiamato in prima persona a incarnare l’idea che essi si sono fatti della ’tradizione’, la distanza appare eccessiva: i suoi impulsi di resistenza sono i campanelli d’allarme dello stridere di una distanza culturale incolmabile.

L’intensità e la rapidità del mutamento si riflette nell’eccezionalità quasi paradossale della vicenda di Assandira, in cui un figlio, attraverso lo sguardo modellante del proprio ’presente’, pretende la metamorfosi di un padre ancora in forze e in grado di ribellarsi. L’impossibilità di individuare efficaci risorse per il presente conducono Mario a rinunciare a trarre insegnamento dalla vita del padre; l’unica possibilità gli è data dall’esercizio di un’azione predatoria sul suo passato, nel tentativo di trasformarlo in patrimonio da mettere in vendita, trasformando sia il passato sia il padre stesso in merce. Una merce viva, da ammaestrare ed esibire a beneficio del divertimento di un pubblico di turisti, annoiato e a caccia di immaginari esotici, con cui la generazione di Mario stesso condivide, almeno in parte, un comune sentire.

Angioni si concentra sul ’sentire’ del vecchio pastore, soprattutto quando ne esplicita il rimuginare solitario. Un rimuginare feroce, che contrasta con le rare e lapidarie parole esternate e che non è riconducibile semplicisticamente alla sfera psicologica del personaggio, ma che corrisponde al campo di una battaglia in cui si condensa lo scontro di interi mondi culturali, i cui modelli contrastano, al limite dell’incomunicabilità, con quelli condivisi dal figlio e dalla nuora.

Il soliloquio è costruito certamente a partire dalla profonda conoscenza dell’autore di un contesto culturale in cui la parola andava soppesata in maniera rigorosa, e governata, anche, attraverso un severo autocontrollo delle emozioni, giudicate spesso sconvenienti, a tutto vantaggio di forme di comunicazione per lo più implicite, basate sul fare e sul confronto nel fare. A partire dalla percezione del forte contrasto tra il proprio fare e quello del figlio (e della nuora), il protagonista interpreta gli esempi contemporanei delle forme di vita come dei ’sembrare’, la versione più deteriore del fare, il fare svuotato di senso: «Sembrare. Assandira era tutto un sembrare. E sembrare era tutto» (Angioni 2004: 19).

Nel nugolo di pensieri e di ricordi che si affollano nel tormentato flusso di coscienza del vecchio spicca più di tutti il senso di vergogna, «questa cosaccia viscida che stringe, stringe» (Id.: 12). Un’emozione spiacevole, estremamente negativa e rivelatrice dell’inadeguatezza, dell’errore, della colpa, che ha a che fare con l’incorporazione tutta culturale del senso del giusto e dell’ingiusto e con la costruzione, culturale anch’essa, della reputazione. La vergogna è presente sia come espressione di un senso di inadeguatezza del ’sé’ sia come segno di un tradimento del ’noi’. Il legame tra il sentire e l’identità e, in questo caso, tra la vergogna e il rapporto con il gruppo di appartenenza, rinvia al potere di giudizio e di controllo di quest’ultimo e ne rivela i valori condivisi e le prescrizioni. Tra questi, spiccano il valore del fare operoso, ovvero l’etica del «lavoro ben fatto» (Angioni 1986: 135-136 e 2011: 184). L’anziano pastore è consapevole di aver tradito i sacrosanti valori di un’etica del fare, cedendo al fascino dei guadagni di un’attività che per lui non è un vero lavoro, ma una sua brutta copia, una mascherata. Un senso di profonda vergogna lo assale proprio per aver acconsentito a rinnegare il proprio fare-dire-sentire, travisato e messo in vendita. La vergogna è un sintomo, uno fra altri, doloroso quanto prezioso, poiché, proprio in virtù della sua provvisorietà, in grado di innescare reazioni produttive di riscatto.

La vicenda di Costantino si conclude tragicamente con la morte, non tanto la morte fisica (almeno non la sua), ma la morte di una qualche continuità culturale e di un passaggio di consegne tra le generazioni, che non sono state in grado di stabilire neppure un compromesso provvisorio. La condanna a una ’morte’ tanto assurda gli è comminata da quel tribunale interiore della cultura incorporata di cui Costantino pure è giudice effettivo. Un tribunale che rimanda a una comunità oramai sfilacciata o che probabilmente oramai resiste solo nella sua mente: «Se ne muoio anch’io, come è giusto, sarà più di vergogna» (Angioni 2004: 17).

Riferimenti bibliografici

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Opere principali di Giulio Angioni

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Testi letterari citati

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Una ignota compagnia, Milano, Feltrinelli, 1992.

Assandira, Palermo, Sellerio, 2004.

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Letture suggerite

Angioni, Giulio, 1972, «Alcuni aspetti della ricerca demologica in Italia nell’ultimo decennio», in Alberto M. Cirese, (cura), Folklore e antropologia tra storicismo e marxismo (con scritti di G. Angioni, C. Bermani, G.L. Bravo, P.G. Solinas), Palermo, Palumbo: 169-195.

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Marras, Margherita, Giuliana Pias et Felice Tiragallo, 2020, Un vita due volte vissuta. Giulio Angioni scrittore e antropologo, Il Maestrale, Nuoro.