Il sodalizio fra Giuseppe Pitrè (Palermo, 1841-1916) e Pasquale Villari (Napoli, 1827 - Firenze, 1917) fu profondo e duraturo, sebbene sia fin’ora rimasto pressoché inosservato nella bibliografia su entrambi [1]. Un motivo va imputato al diverso stato sociale e culturale dei due studiosi : il Villari fu politico, deputato dal 1870, senatore dal 1884, accademico chiarissimo, onorato di prestigiose onorificenze, autore di volumi di indole storica, politica e d’attualità talora tradotti all’estero, meridionalista autorevole, pubblicista conteso dalla stampa nazionale.
Il Pitrè fu medico nel capoluogo siculo dal quale non si allontanò mai, cultore di un filone di studi allora piuttosto ignoto : solo negli ultimi anni di sua vita ottenne un incarico universitario per la nuova disciplina della Demopsicologia (oggi diremmo Antropologia culturale [2]) e la nomina a senatore. I suoi studi - pur pregevoli e tuttora fondamentali - furono apprezzati soprattutto dagli addetti ai lavori, per l’evidente loro specializzazione, riguardando essenzialmente le tradizioni popolari della Sicilia. Non mancano profonde consonanze - va da sé - come postula un’amicizia durata fino alla tomba, più intuibile che palesata, e che si mantenne tale anche senza una quotidiana familiarità. ’La stima che viene da uomini come lei - confida il Villari - è fra le poche cose che confortano la vita’ (lettera LXXIII).
Il primo contatto epistolare avvenne nell’inverno del 1868 da parte del Villari, insegnante di storia all’università pisana. Appresa l’uscita di un volumetto di biografie di contemporanei italiani fra le quali si annoverava anche la propria, ne chiedeva tre esemplari all’autore.
Tacendo il precoce interesse paremiologico trasmessogli dalla madre Maria Stabile vedova Pitrè e dalla consuetudine del popolo siciliano d’intercalare con proverbi la parlata, Beppe s’interessava allora di critica letteraria e di profili biografici, né gli erano mancati incoraggiamenti : ’Tu sei adatto a criticare’ lo apostrofava l’amico Angelo De Gubernatis [3] ; ’Siegua ella intanto i suoi studi critici’, rincalza Mario Rapisardi [4]. Giovane ambizioso e riflessivo il Pitrè aveva notato la fioritura di raccolte biografiche, per solito accolte dalla piazza commerciale, sia per la vanità dei biografati, sia per una reale esigenza di far conoscere all’intero territorio italiano personaggi famosi negli stati preunitari di competenza o comunque in ambito circoscritto. Per richiamare qualche esempio, rammento un cospicuo dizionario francese cui collaborarono alcuni italiani [5], un manualetto del conte Giuseppe Ricciardi [6], la collana ’Contemporanei italiani. Galleria nazionale del secolo XIX’ ideata dall’editore Pomba e perfino il concorso bandito dalla Società pedagogica italiana per comporre un Plutarco italiano [7], messo in pratica da un futuro amico del giovane palermitano [8]. Egli appunto pubblicò un volumetto di biografie nel 1864 [9], seguito da un secondo di lì a quattro anni. Esso contiene trentun profili, fra i quali quello del Villari. Se per alcuni ebbe l’ausilio di amici se non dagli interessati stessi, quello del Villari sembrerebbe redatto dal Pitrè : evidentemente riuscì a reperire notizie sufficienti al proposito. Corrobora questa ipotesi, quantunque ex silentio, l’assenza di missive anteriori a quelle del febbraio 1868 qui edite, là dove per altri biografati è rimasta qualche letterina.
Nel profilo Villariano il giovane autore evidenzia la figura del patriota e dello storico, soffermandosi sugli scritti fino allora usciti, sempre elogiando. L’interessato avrà certo gradito, fra le altre, queste espressioni : ’In argomento di pubblica istruzione egli è molto addentro ; e in più d’una congiuntura ha sciolto la lingua a difenderla contro il privilegio e l’arbitrio. Se egli potesse venir ascoltato, tanti guai che presentemente si deplorano e non si sanno rimediare cesserebbero al certo, perché gli esempi recati dal Villari persuadono a più d’uno’ [10]. Ed anche la definizione della storia secondo il concetto del biografato : ’La storia fa servire non al racconto di fatti, ma ad indagarne le cagioni e a trarne ammaestramenti. Se narra, se svolge i fasti dei popoli, dà norme al vivere e, interrogando il passato, richiama all’azione, scopre le leggi che governano i destini delle nazioni, porge qualche augurio per le sorti nostre e ne fa accorgere che non siamo spettatori indifferenti, ma sì che entriamo noi stessi nel dramma che dal passato si prepara’ [11]. Senza dubbio le pagine storiografiche del docente pisano e poi fiorentino posseggono un fascino non raro in certi scrittori meridionali : chi scrive – e chiedo venia per la confidenza – rimase colpito da un volumetto pertinente, e fra le altre trascrisse questa definizione : “Un uomo non si spiega senza i suoi tempi, una società senza il suo passato, senza quelle che la circondarono. Il passato si è trasformato nel presente, le diverse società agiscono le une sulle altre, le diverse loro culture filtrano del pari l’una nell’altra. Così si forma quello che noi chiamiamo lo spirito dei tempi, il quale si personifica nell’uomo, che perciò rimane inesplicabile senza di esso. E come questo spirito dei tempi resta inesplicabile senza il passato da cui nasce, così pure l’uomo solamente colla storia del passato può intendersi e spiegarsi” [12]
Comunque sia il biografato oltre ad offrire un proprio volumetto, lamentava quanto la morte della madre lo avesse prostrato e privato di orientamento. Dolore intuito e condiviso dal giovane palermitano, notoriamente mammone, come la maggior parte dei contemporanei.
Il successivo tassello epistolare data al 1884, allorché il dottor Pitrè si congratulava con l’on. Villari per la nomina a senatore del Regno e al 1889, allorché lo studioso siciliano domanda un aiuto per reperire una citazione del Machiavelli. Se la nostra impressione calza, i messaggi ci appaiono abbastanza disinvolti, come se vi fossero stati nel frattempo altri contatti, quali e quanti non siamo in grado di precisare. Non sussiste dubbio invece che l’amicizia si dipanasse in modo costante dall’anno 1894, come testimonia la corrispondenza, nella quale le apostrofi sono ormai : ‘Caro dottor Pitrè’, ‘Mio venerato signore’, ‘Caro amico’, ‘Mio venerato Prof.’ e via elencando. Sullo scorcio nel 1893 inoltre avvenne la conoscenza diretta (confronta lettera VI), replicata nel febbraio 1894, per essersi il Villari recato in Palermo alcuni giorni con lo scopo di constatare di persona l’ambiente isolano e poter concludere con un minimo di cognizione di causa le sue analisi ed i suoi interventi su temi siciliani.
Si noterà quanto variegate e sovente impegnative siano le domande del Villari, ora riguardanti proverbi (lettera IX), ora i contatti con studiosi delle città isolane (lettera X), ora la conduzione di tenute agricole (lettera XI). Il senatore e cattedratico desidera attingere alle fonti, prima di parlare : contatta molti competenti, progetta di visitare le zolfare romagnole e confrontare (lettera XIV), ritornare in Sicilia (lettera XV) per chiarire i precipui dubbi rimastigli.
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Dalla lettura del carteggio affiorerà la profonda stima fra il docente partenopeo e lo studioso palermitano, più giovane di tre lustri soltanto, ma con un rapporto come fra allievo e maestro. Su molti aspetti i documenti epistolari tacciono, né – a rigore – appare del tutto perspicua come sia sorta l’amicizia, l’anno stesso, quali gli elementi determinanti... Si sentirono sulla medesima lunghezza d’onda e la conoscenza personale non spezzò l’incantesimo, ma combaciò con l’idea che si erano di loro reciprocamente formata.
È probabile che il Villari vedesse nel Pitrè un esponente della civiltà siciliana quanto mai valido e non collocato sul candelabro : stimarlo era anche un tributo d’onore per la Sicilia, tanto vilipesa, perché non conosciuta. Come napoletano si sentiva forse anche un po’ in colpa per quanto avevano fatto i sovrani di Napoli e poi delle Due Sicilie, del resto dichiarava ’volentieri morirei per la Sicilia’ (lettera XXIII). Affrancarsi da Napoli fu una costante del siciliano consapevole : lo si evince anche dalla storiografia sicula, sia nel filone erudito, sia nel filone politico-polemico che non esclude l’idea federativa italiana se non altro appunto per dividersi da Napoli, sia nel filone sorretto dall’idea nazionale, che non perde il senso della tradizione isolana [13]. Il docente partenopeo lo sapeva bene e poi apprezzava e sollecitava dal medico palermitano le analisi schiette, se non feroci, sulla situazione politico-sociale dell’isola (lettera XIV).
Sotto codesto lato le missive toccano vari punti della storia italiana e coeva, in particolare concernente l’isola. Segnalo per un possibile approfondimento multidisciplinare i cenni all’ingordigia del fisco che faceva pagare come estero il vino siculo (lettera XI) ; lo stato d’assedio della Sicilia deliberata dal Parlamento durante i fasci siciliani (lettere XI, XIII) con malcontenti, disordini, i politici Nicola Barbato e Bernardino Verro [14] imprigionati, il séguito riscosso da costoro in Corleone e a Piana dei greci (lettera XIII), il problematico frangente per gran parte imputabile all’improntitudine e all’ignoranza del governo nell’autunno del 1894, l’influsso della stampa, il progetto di legge sul latifondo (lettera XVI). Di sicuro non si sarebbe creduto che a tanto entusiasmo provato durante l’unificazione politica della penisola subentrassero tante delusioni e brucianti vergogne [15] (lettera XVIII). Ma si sa, alla rivoluzione nazionale i settarii riuscirono a subentrare con la rivoluzione sedicente liberale : così sostengono alcuni storici onesti ed acuti, né si reputino giochi di parole, giacché l’asserto è documentabile da gravissimi abusi politici, giuridici, amministrativi e di vario genere, perpetrati tanto dalla Destra quanto dalla Sinistra storica [16]. E poi l’affare Palizzolo, connesso all’assassinio del senatore Emanuele Notarbartolo, marchese di San Giovanni, colpito da ventisette coltellate il 1 febbraio 1893, mentre viaggiava sul treno fra Termini Imerese e Trabia. Mandante dell’assassinio dell’ex sindaco di Palermo, onesto ed abile amministratore, fu ritenuto Raffaele Palizzolo, deputato seguace del Crispi, giudicato colpevole e condannato nel 1901, ma assolto dalla corte d’assise di Firenze nel 1903 per insufficienza di prove. Non è questa la sede per addentrarci sugli avvenimenti e sull’interminabile trafila giudiziaria e neppure per porgere qualche cenno su quello che si considera il primo delitto mafioso [17], apostrofato anche il primo delitto eccellente [18], con una ridda di condanne e di assoluzioni. Il fenomeno mafioso non era certo sconosciuto ai competenti - sebbene il Pitrè facesse mostra di ignorare il nuovo significato del lemma ! [19] - ma al grande pubblico il termine ‘mafia’ si diffuse grazie al processo celebrato alla corte d’assise di Bologna nell’autunno del 1901, nel quale il Palizzolo fu condannato a trent’anni di reclusione. ’Il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia che si era instaurato durante i processi portò all’esplosione di vive reazioni di protesta da parte dei siciliani, ma anche di autorevoli intellettuali fra cui Pitrè e De Roberto. Essi infatti costituirono un comitato Pro Sicilia [20] per riscattare l’isola da tali infamie. Quale poté essere il motivo di una simile scelta ? Essi, in realtà, volevano riscattare la Sicilia da quell’onta mafiosa che già dal processo di Milano era stata attribuita a quel territorio, volevano evitare che il termine mafia potesse connotare tutti siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattuazione della sentenza bolognese, la quale venne portata in cassazione e poi annullata dalla corte d’assise di Firenze. Ritorna a Palermo su una nave, quasi in trionfo Raffaele Palizzolo, onorevole e consigliere d’amministrazione del Banco di Sicilia il quale, dopo essersi arricchito con la liquidità dei risparmiatori, esser stato condannato per l’omicidio di colui che era stato preposto all’istituto di credito per risanarne la situazione, fu assolto e acclamato dal popolo siciliano che preferì lasciare un delitto insoluto piuttosto che vedersi attribuito l’appellativo di mafioso’ [21].
Quanto poi all’ignoranza circa la nuova accezione del termine ‘mafia’ da parte del Pitrè, essa risulta talmente ostentata da puzzare di bruciato, come suol dirsi. Già nel 1863 al teatro palermitano “S. Anna” si replicò per ben cinquantaquattro sere I Mafiusi di la Vicaria di Gaspare Mosca, e nel giro di pochi anni registrò mille rappresentazioni. Mafiuso – si capisce – nel senso di “individuo appartenente ad una organizzazione a delinquere” [22] e non sinonimo di baldanza, di vivacità et similia. Nel 1900 poi usciva il saggio La mafia di Don Luigi Sturzo.
L’analisi pitreana appare appassionata (lettera LXVI), per quanto i rilievi più delicati non furono affidati ad una missiva, bensì alla viva voce di un amico (lettera LXVII) [23]. Lo scrittore francese René Bazin, giunto in Sicilia l’anno 1891, parlando della mafia menziona proprio gli scritti dei nostri Villari e Pitrè [24], oltre al Torraca [25].
Non manca poi nel carteggio un cenno all’affare Nasi [26] (lettere LXXIV e XCII) e ad un giudizio in proposito attribuito a Vittorio Emanuele Orlando, nipote del Pitrè (lettera LXXIV), nonché alla politica del Giolitti (lettera LXXV) nell’autunno del 1904 percorso da ’agitazioni pazze e continue’.
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Il desiderio Villariano di favorire il Pitrè e avvertibile in più occasioni. Menziono le più vistose. Nel 1897 Villari patrocinò e riuscì a far elargire al Pitrè il “Premio Bressa” assegnato dall’Accademia delle scienze di Torino : egli lo conosceva avendolo vinto nel 1881. Vincita non certo automatica, sia perché l’opera scientifica del Pitrè non era granché incansellabile nei paradigmi accademici coevi, sia perché concorrevano agguerriti candidati di discipline diverse [27]. Alla vittoria [28] contribuirono gli elogi di Alessandro d’Ancona, di Pio Rajna, di Domenico Comparetti, di Gaston Paris e dello stesso matematico Enrico D’Ovidio, presidente dell’Accademia.
Segnalo poi l’interessamento del Villari per istituire il Museo Etnografico in Palermo, alla cui direzione sarebbe stato posto il Pitrè (lettera XCVI). Questi rispose in modo smaliziato, conoscendo l’ambiente ed imbastisce una cronistoria dei tentativi presso il municipio andati a vuoto per reperire i locali (lettera XCVII). Di fatto, più volte dopo l’esposizione etnografica celebrata l’anno 1892 [29] si era dato da fare, come nella primavera del 1903, quando in una tornata del consiglio comunale presieduta dal sen. Tasca Lanza propose la “mozione per l’istituzione d’un museo etnografico. Dice che egli raccoglie tutto ciò che si riferisce alla vita del popolo siciliano a sue spese e chiede solo che si provveda al locale dal municipio. Presenta la seguente proposta. Il consiglio prende atto dell’offerta del consigliere Pitrè, con la quale egli farà dono di un museo etnografico siciliano al comune ed incarica l’amministrazione di assegnare i locali convenienti per la istituzione di detto museo” [30]. Il Villari insiste nella proposta (lettere C a CV), ma il folclorista palermitano non avrebbe mai accettato di vedere istituito museo per esserne direttore retribuito (lettera CI) : oltre che orgoglioso, prevedeva quanto avrebbero pensato e detto i suoi concittadini. Non intendeva neppure collaborare (per puntiglio ?, per vanità ferita ?) al costituendo Museo etnografico italiano del Loria (lettera XVIII) : si mostrò disponibile soltanto per l’imbeccata del Villari (lettera IC).
Da ultimo rammento come l’illustre storico intendesse procurare una docenza universitaria al più giovane amico (lettera CXI), ignorando che già dall’anno accademico 1910-11 egli era stato incaricato dell’insegnamento della Demopsicologia, la prima cattedra della disciplina in Italia creata appositamente per lui (lettera CXII) [31]. Lesse con gusto la prolusione (lettere CXV-CXVI) e fece pressioni per elevare il mero incarico in ordinariato (lettere CXIX-CXX).
A nostra impressione il Villari auspicava inoltre che il Pitrè ricostituisse il comitato della Società Dante Alighieri in Palermo. I sodalizio era particolarmente caro al Villari - secondo presidente di esso, dopo Ruggero Bonghi - e tanti anni innanzi alla fondazione avvenuta nel 1889 incoraggiava l’allora ministro della pubblica istruzione Francesco De Sanctis ad aprire scuole italiane all’estero. Il Pitrè tuttavia mostra una certa quale riluttanza [32], sia delineando un acuto profilo dell’indolenza siciliana (lettera L), sia perché non avrebbe avuto quel ruolo da lui preteso o per la presenza di personaggi autorevoli e non accantonabili, o per la presenza di soggetti a lui antipatici, o per esserci troppi... galli : tale la nostra quale che sia impressione [33].
Dopo il maremoto di Messina nel quale morì Rosina Pitrè, il Villari fece nominare accademico della Crusca il padre affranto (lettere CVI-CVII).
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Le notizie biografiche dei corrispondenti risultano cospicue e talora preziose, indizio di confidenza amicale, ed assenti in tutti gli altri carteggi. Al tempo della seconda missiva il Villari versava in uno stato di disorientamento esistenziale della morte della madre (già lo abbiamo precisato) e più volte nel volgere degli anni soffriva di malinconia (confronta lettera LV) o di depressioni [34], aggravate dal frangente socio-politico e dai fallimenti che gli sottraevano l’energia necessaria (lettera X). Anche il Pitrè e non manca di lagnarsi per lutti e per malesseri vari. L’unico figlio del Villari divenne ’inglese” (lettera LXII) e giornalista quasi sempre all’estero, mentre la primogenita del Pitrè sposò il diplomatico Antonino D’Alia (taccio le pressioni paterne per avvicinarli all’Italia) suscitando una litania di lagne spropositate [35] e che altri corrispondenti come il D’Ancona biasimarono. Ben motivato fu il dolore per la morte della terzogenita Rosina nel maremoto di Messina del 28 dicembre 1908 e del secondogenito Salvatore, neo medico, per una setticemia (lettera CXVII), nonché per la morte del pittore Domenico Morelli, amico fraterno oltre che cognato di Pasquale (lettera LXII), anche per le difficoltà economiche dei numerosi figli orfani (lettera LXX).
A parte i figli lontani (lettera LXXIX) ferì in modo lancinante il tracollo finanziario della signora Villari non soltanto per la consistenza della somma, ma per la disonestà del cognato di Pasquale (lettera XLVII). Lo stesso accadde al medico palermitano cui i disonesti cognati dissiparano una buona fetta del patrimonio attorno al 1907 (lettera XCIV). Ciò non ostante i nostri studiosi si scambiano i ritratti fotografici perfino con 40° di febbre (lettera XII) ; si spediscono a vicenda doni mangerecci per il capo d’anno ; concordano che la penultima generazione è cresciuta senza maestri (lettera XIII) ; il Villari villeggia in Baviera (lettere XIX, LXXV, CXIX) o presso Bolzano (lettera LXV) o in Carinzia (lettera XCVIII) ; il Pitrè gode di rivestire la funzione di sindaco di Palermo (lettere XXXII, XXXIII).
Numerose infine le allusioni bibliografiche di ambedue gli studiosi, poche tuttavia le discussioni ove si prescinda dalle notizie sullo stato agricolo della Sicilia nel 1894 (lettera XIII) e nel 1901 per allestire una seconda edizione degli articoli sull’isola (lettera LVII), meglio sul socialismo nell’isola (lettera XIX) che il Pitrè aveva a suo tempo glossato (lettera XXI). Assai gradito il dono dei tre tomi sul Machiavelli (lettere XIII, XXII, XXVI) in seconda edizione e gli articoli sull’emigrazione (lettera CVIII), fenomeno peraltro macroscopico da decenni. I libri del Pitrè erano talora letti dalla consorte di Pasquale (lettera LXXIII), il che non è complimento da poco. Rispetto ad altri amici influenti il Pitrè non coinvolse altri nel rapporto col docente fiorentino, a parte le due raccomandazioni per Mattia Di Martino (lettera LVIII) letterato di Noto, e per Giuseppe Antonio Borgese (lettera LX) allora studente del Villari, destinato ad ampia fama.
Dal carteggio ci faremo un’idea non soltanto del sodalizio fra due studiosi di non mediocre caratura, indipendenti a livello ideologico (più di altri contemporanei, intendo) ed autorevoli nel rispettivo campo disciplinare, ma anche uno spaccato dei decenni a cavallo dell’Otto e del Novecento in un’Italia soffocata da gravi difficoltà oggettive, da violenze, da vergogne, dall’arrogante cricca liberal-massonica al potere, ghermito non di rado in modo scorretto e comunque espressione di neppure l’un per cento del popolo italiano, vessato e smunto tanto da dover emigrare. Si intuisce lo stacco fra Settentrione e Mezzogiorno, la cui percezione si sclerotizza in dato apodittico “fornendo una spiegazione per tutto quello che era andato storto in base a forti stereotipi negativi riguardo al carattere meridionale” [36], mentre il Villari con le sue Lettere meridionali uscite nel 1875 è ritenuto il fondatore della letteratura meridionalista e del concetto – o pre-concetto – che il problema principe del Meridione consista nella mancanza di un mutamento sociale. A ben considerare i conati per comprendere “i problemi del Sud divengono la storia di un ricorrente fallimento” [37]. Del resto, il governo del Regno d’Italia non rappresentava il popolo – già s’è accennato – bensì i notabili ed essi non rinunciarono punto a “mantenere la propria centralità sociale […] nella forma del diritto/dovere di servire il nuovo stato o […] di servirsi di esso” [38], sensibili per di più alle diverse realtà locali, supporto del loro potere.
Nota estrinseca. I documenti epistolari inediti qui presentati appartengono al Museo Etnografico Siciliano in Palermo per le lettere di Pasquale Villari dirette al Pitrè e alla Biblioteca Apostolica Vaticana per le lettere di Giuseppe Pitrè dirette al Villari. Rispetto al carteggio intercorso, qualche pezzo andò perduto (lo preciseremo a suo luogo in nota), ma il grosso si direbbe conservato. La trascrizione è integra e fedele. Conforme ad una sensata prassi abbiamo sciolto pressochè tutte le abbreviature, introdotto virgolette, corsivi ed altri segni diacritici, reso più vicino al gusto odierno la punteggiatura e l’uso delle maiuscole, collocata sempre in esordio la data per l’evidente scopo di rendere più serena la lettura e più proficua la consultazione. Si rammenta che la grafia del Villari si decifra con una certa quale fatica, forse per la fretta con cui vergava e per la mole della corrispondenza quotidiana, oltre ai problemi della vista. Anche la grafia del Pitrè negli ultimi anni perde quell’ordine e quella pulizia che la contraddistinguevano.